Premessa
Era dicembre 2018 e mi trovavo al Museum of Modern Art di New York, passando da una sala all’altra del museo sono stato attratto da un dipinto che non avevo mai visto prima: si trattava di “Christina’s World” un opera del 1948 di Andrew Wyeth, artista a me sconosciuto. Quel giorno, tra le tante opere più famose e importanti, fu proprio questo dipinto a colpirmi in modo particolare. Nessuna fila per poterlo ammirare, nessuno spazio particolare dedicato alla sua esposizione, era semplicemente lì in un corridoio del museo, ma nonostante questo attirava molto la mia attenzione.
L’opera
“Christina’s world” raffigura una giovane donna in abito rosa che giace su un prato dando le spalle all’osservatore. La sua posizione è curiosa: il suo busto, appoggiato sulle braccia, sembra essere come vigile e teso, mentre lo sguardo va verso la cima del colle, dove si stagliano una casa di legno e quello che sembra essere un fienile. Lei è Christina Olson, poliomielitica vicina di casa di Andrew Wyeth (autore dell’opera) nel Maine. Christina Abitava con il fratello in una modesta fattoria e nonostante la sua disabilità motoria, per tutta la vita rifiutò l’uso della sedia a rotelle. Quando la paralisi delle gambe fu totale, iniziò a trascinarsi per la casa portando con sé il peso del proprio corpo.
Il quadro nacque quando un giorno Wyeth, affacciandosi alla finestra, la vide sull’erba. Qualcosa di quella scena lo scosse al punto di desiderare dipingerla. Per lui era quello “Il mondo di Christina”, un mondo che ritrae bene la dialettica esistente tra desiderio e fatica, due compagni indissolubili (forse anche tra accettazione e non accettazione, ma questa è un’altra storia e non ci è dato di saperlo).
Il mio incontro con Christina’s world
Il primo impatto su di me fu forte, e generato dalla visione d’insieme dell’opera: ricordo che alla sua vista mi fermai di colpo, i miei piedi s’incollarono al pavimento di legno del museo ed io rimasi come rapito di fronte a quel quadro che mi sembrava una finestra simbolica nella quale avevo la possibilità di incontrare (senza rendermene pienamente conto al momento) l’artista, Cristina (la donna ritratta nel quadro) e me medesimo allo stesso tempo.
Il secondo impatto, non meno intenso del primo, fu dato invece dai dettagli e dalla cura quasi ossessiva con cui erano stati dipinti: avanzai di qualche passo, fino ad arrivare a pochi centimetri dal quadro e, in uno stato quasi meditativo, mi persi nell’osservare i finissimi fili d’erba e i pochi fiori disegnati, così fragili e vivi, così reali e onirici.
Da quel momento in poi sentivo in modo sottile, ma inequivocabile, che quell’opera avrebbe fatto parte della mia vita (sia in senso simbolico che in senso concreto). Dopo averle lanciato un ultimo sguardo e aver scattato le due foto che stanno qui sotto, me ne sono andato con un “arrivederci” che riecheggiava vago i me.
E arrivederci fu, tant’è che a gennaio, di ritorno al lavoro, nel mio studio c’era questo quadro appeso alla parete, regalatomi da chi aveva notato l’effetto che l’opera aveva generato in me. La foto qui sotto l’ho scattata la settimana scorsa, quando durante un momento di pausa mi sono ritrovato faccia a faccia con la stampa del dipinto, è stato una sorta di secondo incontro da cui sono scaturite poi queste parole.
L’artista
In generale l’ arte di Andrew Wyeth racchiude la vita di tutti i giorni, è una pittura realista che però non sembra limitarsi alla riproduzione di ciò che è meramente visibile; molto spazio mi sembra infatti essere dedicato ai tanti impliciti che possono risuonare in chi osserva le sue opere. Può quindi essere che un suo quadro rappresenti una casa, ma siamo sicuri che sia solo una casa? (un po’ come accade quando si esplorano i sogni in terapia, spesso troviamo un contenuto manifesto e uno latente)
La realtà dipinta da Wyeth sembra infatti comunicare qualcosa che ha più a che fare con la dimensione dello spirito e della psiche (anima) che con quella del concretismo; e anche in quest’ opera sembra comunicarci la misura di un sentimento, piuttosto che la resa oggettiva del paesaggio.
Le domande
Possono sorgere di conseguenza delle domande che difficilmente troveranno risposta, se non nella soggettiva e personalissima proiezione che ognuno di noi può vivere nell’entrare in contatto con l’opera, ad esempio:
La donna sta forse scappando dalla casa in lontananza dove era tenuta prigioniera? Oppure, forse, sfinita da una fuga iniziata altrove, è finalmente giunta in prossimità di una casa in cui potrà trovare rifugio?
e ancora…
Simbolicamente, cos’è che la donna scorge guardando la casa sulla collina? forse il passato? forse il futuro?
Dov’è il futuro della donna? Alle sue spalle, quindi dietro a noi che osserviamo l’opera? oppure davanti a lei, in cima alla collina?
Ad ognuno la sua personale interpretazione, che probabilmente dirà qualcosa di sé.
Perchè ho voluto dedicare un articolo a quest’opera
Ma cos’è allora il mondo di Christina? Forse qualcosa che ci riguarda tutti…
“Sento la solitudine di quella figura – forse la stessa che sentivo quando ero ragazzo…è stata la mia esperienza quanto la sua”. Queste sopra furono alcune delle parole di Wyeth circa il suo “Christina’s world”, e credo che non sia l’unico che ci si possa ritrovare.
Il mondo di Cristina è forse il mistero del passato di ognuno di noi e della nostra appartenenza?
È forse Il mistero del nostro futuro e della nostra individuazione?
Non lo so, forse tutti e due, forse nessuno di questi, ma so perchè ho scelto di avere quest’opera in studio (seppur ai tempi non sapessi nulla sia dell’artista che dell’opera stessa).
La salvezza
Quest’opera, ai miei occhi, ha che fare con la salvezza – e la salvezza ha a che fare con la terapia – e la terapia ha a che fare con la vita.
Ma cosa intendo con “salvezza”? sinteticamente, io credo che siamo salvi quando siamo noi stessi, quando siamo liberi dai condizionamenti, quando viviamo una vita in cui possiamo riconoscerci, quando nella nostra vita ci diamo la possibilità di giocare tutte le carte che abbiamo in mano, qualunque esse siano. Queste, per quanto mi riguarda, sono grosso modo anche le principali finalità di una buona psicoterapia; per questo sento in forte relazione tra loro le parole “salvezza-terapia-vita”.
E come ci si salva? semplificando, forse nella vita abbiamo due principali modi per salvarci:
Uno ha a che fare l’andare, allontanarci, evadere, levare gli ormeggi, lasciare alle nostre spalle tutto ciò che ci imprigiona in una vita non libera, in cui non ci riconosciamo, prendere le distanze da quella parte della nostra storia che è stata scritta con l’ ”inchiostro” dei condizionamenti e dell’eredità dei traumi vissuti (una storia che va accettata e da cui abbiamo bisogno di riuscire ad andare oltre).
L’altro ha a che fare col tornare, riuscire a tornare a casa, trovare asilo dopo tanto vagabondare, approdare, trovare rifugio dopo che ci siamo persi, tornare a noi stessi e divenire poeti della nostra storia, quella ancora da scrivere, stavolta con l’ ”inchiostro” del desiderio.
Questi due aspetti che sembrano così opposti, Andare e Tornare, in realtà sono solo le due facce della stessa medaglia e “Christina’s world”, ai miei occhi, ci parla proprio di questo: della possibilità di metterci in salvo prendendo le distanze da una “casa” dove non ci sentiamo davvero a casa, e della possibilità di metterci in salvo tornando finalmente alla nostra vera “casa”, qualunque cosa ciò possa significare.
Mi piace l’idea che quest’opera, così intesa, possa fare compagnia a me e alle persone che incontro, partecipando così al tempo che trascorriamo insieme; un tempo di partenze e un tempo di ritorni.