Don’t look up: qualche breve riflessione sul film.

In questi giorni ho guardato “don’t look up”; ero scettico (come spesso sono rispetto ai grandi fenomeni mediatici di massa) ma generalmente scelgo comunque di lasciare la “porta aperta”, fosse anche solo per tenere il passo su cosa circola al momento. Avere idea di cosa viene proposto dall’alto e allo stesso tempo di cosa viene fruito per la maggiore dal basso contribuisce a darmi la misura di dove ci troviamo culturalmente, di quale sia il terreno culturale/sociale condiviso su cui ci muoviamo. Questo è un aspetto per me fondamentale perchè non possiamo pensare di poter comprendere appieno il nostro livello personale (micro) senza tenere in considerazione anche il sistema sociale e culturale (macro) in cui siamo inseriti. Sarebbe come cercare di valutare la salute di un pesce non tenendo conto anche della qualità delle acque in cui nuota.

Detto questo, passiamo a qualche breve considerazione sul film (potrebbero essere davvero moltissime, ma mi limiterò a qualche breve riflessione sulle tematiche che mi hanno colpito maggiormente).

Assodato che il cast e la realizzazione sono di altissimo livello, è notevole come attraverso un “confezionamento” così leggero e fruibile da chiunque vengano passate problematiche attuali ed esistenziali di grande rilevanza e spessore. Anche se inizialmente potrebbe sembrare l’ennesimo e classico disaster movie, in questo caso l’apparenza inganna. Tra le righe troviamo infatti tematiche quali la spinta per la ricerca della verità che si scontra con la controspinta della negazione di quella stessa cruda realtà (e va da sé che questo ci riporta a ciò che sta accadendo su scala mondiale, basti pensare al surriscaldamento globale o anche al covid, giusto per dirne due).

Senza considerare che questo stesso conflitto dato da due spinte che vanno in direzione opposta, ovvero: la ricerca della verità e la negazione di quella stessa scomoda verità è un dinamica che spesso abita anche il nostro profondo. È esperienza comune quella di avere paura di rendersi conto di come stanno davvero le cose nel proprio intimo, ignorare le verità emotive che vi sono custodite  e andare avanti come automi, col paraocchi, come addormentati o ipnotizzati.

Questo film ci butta violentemente in faccia l’immanente realtà della nostra finitudine come esseri umani, l’inesorabiltà dell’impermanenza che non risparmia niente e nessuno. Da questo punto di vista la brillante pellicola si rivela essere spietata, non ci sono sconti per niente e nessuno. Ma c’è una scena sul finale che a mio avviso rende possibile l’impossibile, avviene infatti il conubbio dell’immanenza con la trascendenza: i personaggi riuniti a tavola in un momento conviviale si godono la reciproca compagnia, sanno come stanno le cose, accettano la realtà e non la negano, con sincero affetto si tengono per mano pregando, non permettono alla brutalità della vita e della morte di portar via loro ciò che di così prezioso hanno ancora la possibilità vivere, fosse anche solamente per qualche secondo.

In quella stanza, nel modo in cui i personaggi stanno insieme, si gioca la partita simbolica dell’essere umano: non viene cercato un modo per superare il limite (nessuna astronave su cui salire) e, allo stesso tempo, il limite non riesce ad invalidare il senso della vita (a quella tavola c’è amore).

Buona visione…